Commemorazione Eccidio dei cinque martiri di Ferno 2010

Commemorazione Eccidio dei cinque martiri di Ferno 2010

 

Orazione ufficiale a cura del Dott. Enzo Laforgia (coordinatore dell’Istituto varesino per la storia dell’Italia contemporanea e del movimento di liberazione)

In questa giornata, in giornate come questa, ricorrono inevitabilmente, ma prive di ogni retorica, parole come «martirio» e «sacrificio». E tuttavia a noi, oggi, queste parole sembrano spropositate, travalicano la nostra capacità di attribuire loro un senso concreto e reale. L’idea di compiere dei sacrifici o di immolarsi sino al martirio supremo non trova spazio nelle nostre esistenze. L’idea poi di sacrificarsi senza trarre un vantaggio personale, di mettere in gioco la propria vita per un obiettivo incerto e lontano ci sembra decisamente folle.

Il primo problema, infatti, che si pone a chi studia questa pagina della nostra storia è quello relativo alla “scelta”: alle motivazioni, cioè, che in un preciso momento storico indussero giovani e meno giovani, uomini e donne delle più diverse estrazioni sociali e culturali e con le più diverse storie personali alle spalle a mettersi in gioco, ad abbandonarsi ad un’esperienza che poteva contemplare anche il sacrificio della stessa vita.

Bisogna ricordare, innanzitutto, che quella pagina di storia nazionale che siamo soliti chiamare «Resistenza», e all’interno della quale si consumarono le giovani vite che qui celebriamo, si inserisce nel più vasto quadro della guerra totale che incendiava l’Europa e il mondo. Quel «mostro novecentesco», secondo la definizione dello storico Hobsbawm, che non aveva precedenti nella storia umana: per caratteri ideologici, per estensione geografica, per numero di vittime, per vastità di distruzioni. Un’esperienza di cui solo pochi e i più anziani tra noi conservano ancora una memoria diretta. E che proprio per questo è difficile per noi ricostruire o anche solo immaginare.

Possiamo cogliere la normalità di una situazione di per sé eccezionale e per noi, ripeto, difficilmente comprensibile, anche nel modo in cui il Comandante “Fagno” riassunse nelle sue memorie l’episodio che oggi ricordiamo: «I morti sono cinque e sono Walter, Primula, Arturo, Silvano e Claudino.[…] Il gruppo partito per il Piemonte aveva portato con sé un repubblichino fatto prigioniero, gli uomini erano arrivati stanchi e chi faceva la guardia si era addormentato. Il repubblichino era scappato e questi erano stati i risultati.»

La morte di cinque patrioti, giovani e giovanissimi, secondo i nostri attuali parametri anagrafici, non si traduce in un racconto epico, in una rappresentazione tragica. Ma in una semplice, asciutta contabilità. Senza orpelli né decori linguistici.

Eppure l’episodio avrebbe tutte le caratteristiche per suscitare la retorica con cui quella generazione era stata allevata, una retorica fatta di Patria e bandiere, di eroi e martiri. Di una generazione che aveva imparato a leggere e a scrivere con la «B» di «bandiera» e la «S» di «soldato».

Dei cinque caduti ricordati da Jelmini, comandante della prima brigata lombarda, i più “vecchi” avevano 23 anni (Nino Locarno detto “Walter”, Dante Pozzi detto “Primula rossa”, il siciliano Paolo Salemi detto “Arturo”); Claudio Magnoli (“Claudino”) ne aveva 22 e Silvano Fantin appena 18. Il gruppetto di nove partigiani di cui facevano parte era entrato in contatto con i circa 40 avieri (questo il numero secondo la fonte della Gnr di Vizzola Ticino) guidati dal maggiore De Biasi e dal capitano Folchi. Nell’operazione di rastrellamento nel territorio di Ferno era stata impiegata la «Compagnia della morte» del «Battaglione Azzurro», che, per ironia della sorte, aveva sede presso la caserma di via Pace a Milano.

È difficile, come dicevo, per noi oggi comprendere le ragioni per le quali più di sessant’anni fa dei ragazzi, tutti intorno ai vent’anni, decisero di «sacrificarsi». Di fronte alle asprezze dello scontro, alla paura della morte, qualcuno di loro dovette pure chiederselo. Perché? Per chi o cosa?

Se lo chiese anche Pietro Chiodi nell’agosto del 1944. Pietro Chiodi era stato l’insegnante di filosofia di Beppe Fenoglio. E questi lo ricorderà nel suo romanzo Il partigiano Johnny. Questo tranquillo professore di filosofia aveva ad un certo punto abbandonato la tranquillità degli studi per abbracciare la lotta partigiana. La sua scelta gli procurò l’arresto e chiuso in una cella fascista si interrogò in questi termini:

«Un terribile pensiero mi prende. Perché mi sono impegnato in questa lotta? Perché sono qui quando tanti più sani e forti di me vivono tranquilli sfruttando la situazione? Ripenso alla mia vita di studio […]. Perché ho abbandonato tutto questo?»

La risposta la trova in un’immagine che si è fissata nella sua memoria:

«Mi ricordo con precisione: una strada piena di sangue e un carro con quattro cadaveri vicino al Mussotto. Il cantoniere che dice: – È meglio morire che sopportare tutto questo -. Sì è allora che ho deciso di gettarmi allo sbaraglio. Avevo sempre odiato il fascismo ma da quel momento avevo sentito che non avrei più potuto vivere in un mondo che accettava qualcosa di simile, fra gente che non insorgeva pazza di furore, contro queste belve.»

L’indignazione, dunque, spinse Chiodi ad abbandonare la tranquilla esistenza dell’insegnante e dello studioso e a rischiare la propria vita. L’indignazione e la voglia di giustizia. Perché, come spiegherà lo stesso Chiodi, in un momento successivo, ad un prigioniero fascista:«Sono venti mesi che ci braccate come belve, che ci fucilate, ci impiccate, che incendiate. O per voi, o per noi non c’è più posto in Italia.»

Da quella guerra, insomma, doveva rinascere necessariamente un’Italia in cui non poteva esserci posto per tutti, ma solo «per voi o per noi».

Coloro i quali si impegnarono nelle mille forme della disobbedienza in cui si incarnò quel fenomeno complesso cui diamo il nome di Resistenza, lottavano per la vita e per la giustizia, per la libertà di tutti, anche di coloro che contrastavano.

Non si trattò, infatti, solo di un limitato numero di partigiani combattenti, organizzatisi già all’indomani dello sbandamento nazionale dell’8 settembre.

La reazione morale a quella guerra che non voleva finire, la reazione morale alla risposta repressiva dell’esercito tedesco, alla brutalità del fascismo di Salò, la reazione morale fu un fenomeno collettivo, che attraversò la società in tutte le sue componenti.

Ciò che accomunava tutti, al di là delle differenze politiche e sociali, fu il progetto di una società futura, di cui ancora, tuttavia, non era chiaro il disegno. Un progetto, però, che doveva partire dalla Pace, spezzando definitivamente quella infernale catena di guerre che aveva segnato la vita di tutte le generazioni precedenti.Da quella guerra doveva risorgere un Paese in cui anche le parole più semplici riacquistavano un significato inedito.

Piero Calamandrei, attraversando Firenze finalmente liberata, annotava nel suo diario:«Dunque è finita: siamo arrivati, vivi, alla pace. La PA-CE: mi par di non capire più il significato di questa parola; come se fosse di un’altra lingua.»

Coloro i quali scelsero di mettere in gioco le proprie vite, di affrontare anche la via del «sacrificio» e del «martirio» certamente, per la maggior parte, non avevano in mente un chiaro progetto di società futura. Ma già in quel loro mettersi in gioco, senza che nessuno glielo avesse chiesto, già nel rischiare la pelle non per se stessi o per un particolare interesse, ma per un’idea di giustizia che riguardava le generazioni future, dimostrarono di possedere una precisa idea di Patria. Non quella sovraccarica di orpelli retorici di cui aveva fatto sfoggio osceno il fascismo.

Quella, piuttosto, che scopre il professor Chiodi osservando il liceo in cui insegna inondato dalla luce del sole:«Sento che è una piccola parte della mia Patria. Quella parte in cui io sono chiamato a compiere il mio dovere verso di Lei. È la prima volta che mi accorgo di avere una Patria come qualcosa di mio, di affidato, in parte, anche a me, alla mia intelligenza, al mio coraggio, al mio spirito di sacrificio.»

È un’immagine, questa, commovente e tuttavia immune da qualsiasi retorica: la Patria di uomini come il partigiano Chiodi, come i cinque martiri di Ferno, si fonda sul reciproco riconoscimento, sul senso di responsabilità, sulla partecipazione.

Un’idea di Patria fondata sulla giustizia, sulla convivenza civile e sulla democrazia. Un’idea di Patria che ha consentito all’Italia repubblicana nata dalla Resistenza di poter vivere il periodo di pace più lungo di tutta la storia dell’umanità.

Ma anche la parola «pace», come la parola «guerra», rischia di essere per noi, oggi, un vuoto contenitore. Troviamo difficile comprendere il significato della guerra, per non averne mai avuto esperienza; potrebbe risultare difficile cogliere il significato della pace, per essercene assuefatti.

E allora, quando le parole rischiano di scivolare sulle nostre coscienze, può essere utile chiedere l’aiuto dei poeti, gli unici in grado di farci stupire di fronte a termini apparentemente desueti o troppo abusati.

Il poeta Tonino Guerra, con un’immagine semplice e immediata, con tutta la genuinità della sua lingua romagnola, forse riesce a farci comprendere il dramma di una guerra troppo lontana dal nostro presente (ma ancora molto presente nel nostro mondo) e tutta l’emozione per la pace ritrovata. Tradotto in italiano, il testo dice press’a poco così:

«Contento proprio contento / sono stato molte volte nella vita / ma più di tutte quando mi hanno liberato / in Germania / che mi sono messo a guardare una farfalla / senza la voglia di mangiarla».


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